domenica 6 maggio 2012

Cosa fai quando pensi di non essere visto?

Cosa fanno le persone quando pensano di non essere viste? Quando credono di essere sole, al riparo da occhi indiscreti? Che vizi ci concederemmo se fossimo su un’isola deserta dotata di tutti i comfort?

La ragazza entra in camera, appoggia la borsa ai piedi della scrivania, si toglie la giacchetta che indossa e la lancia sul letto. Poi si ferma un attimo, indecisa sul da farsi. No, non è veramente indecisa, è come se temporeggiasse gustandosi quel momento di attesa. Non è un’attesa fremente, di quelle in cui si batte ripetutamente il piede per terra o si tamburellano le dita sul tavolo, è più un’attesa calma, placida, una sorta di raccoglimento interiore.
Poi si volta verso lo specchio. È uno specchio a muro, grande, privo di cornice, delle dimensioni di una porta, sistemato nel bel mezzo di una parete totalmente bianca, come se non tollerasse altri elementi che possano rubargli la scena, quasi un portale per un altro mondo. L’effetto è amplificato dal fatto che sulla parete opposta, quella sotto cui sono stati posizionati letto e scrivania, è un tripudio di foto, poster, quadri e cartoline pubblicitarie.

Inizia a spogliarsi. Non c’è erotismo nei suoi gesti, o almeno non c’è l’intenzione in lei che li compie. Per chi guarda, per chi avesse la possibilità di farlo, è tutto un altro discorso.
Come faccio a saperlo io? Ma soprattutto, chi sono io? Ve lo spiego dopo.

Durante questi piccoli gesti, mentre si slaccia le scarpe, mentre si sfila la maglia, la gonna e le calze, non smette mai di guardare il proprio riflesso nello specchio, neanche per un attimo.
Rimane in slip e reggiseno. Oggi non ha un completo abbinato: slip bianchi sportivi, sgambati e a vita bassa, quasi un perizoma, e un reggiseno nero con leggerissimi inserti di pizzo.
Continua a guardarsi intensamente. Si gira su se stessa, ruotando la testa fin quando possibile per non perdere mai di vista la propria immagine. Recupera la propria posizione iniziale, alza prima un braccio poi l’altro, infine entrambi. Non so, è come se cercasse qualcosa, come se le sfuggisse un dettaglio, come se cercasse di mettere a fuoco un particolare che solo lei è in grado di vedere. A questo punto si slaccia il reggiseno e si sfila le mutandine. Tutto il vestiario giace ai suoi piedi, dall’alto potrebbe sembrare una corona, o una specie di nido. Ha la pelle molto chiara, e un sacco di nei. È magra, ma senza i muscoli e le fibre di chi plasma il proprio fisico attraverso uno sport. Eppure ha un bel sedere tondo, e dei piccoli seni bianchi irrorati da una selva di venuzze azzurre. Continua a guardare il proprio riflesso. La luce del tardo pomeriggio che entra dalla finestra la colpisce di taglio, e conferisce alla scena una dimensione quasi religiosa. È come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro, un’apparizione, una rivelazione, ma non succede niente.

Si siede sul bordo del letto, che è subito dietro di lei, e allarga le gambe. Penserete di sicuro quello che ho pensato io la prima volta. Vi immaginate un determinato tipo di spettacolo. E invece no. La ragazza non fa proprio nulla di quello che vi aspettereste, o magari sperereste. Semplicemente continua a osservarsi, a studiarsi, anche lì. Certo, si aiuta con le dita, ma davvero vi giuro che non c’è eccitazione nei suoi gesti. Non sta cercando di darsi piacere, è piuttosto alla ricerca di qualcosa. Solo che non l’ha ancora trovata. Non l’ho mai vista o sentita, neanche nel buio della notte, darsi piacere. Forse è la chiave per entrare dentro se stessa, che desidera, non lo so. Ancora non l’ho capito, e secondo me non l’ha capito neppure lei. Eppure è un rito che si ripete praticamente tutti i giorni, al rientro a casa della ragazza. So che vive da sola, e inoltre da quando ho scoperto il buco non ho mai visto entrare in camera sua altre persone, maschi o femmine che siano. Le notti le passa sempre a casa, a parte quando si assenta per l’intero fine settimana, ma credo che sia perché va a trovare la famiglia. Ormai mi sento una specie di angelo custode. Veglio dall’alto su di lei.

Il buco lo scoprì per caso, spostando un armadio durante un impeto pulitorio la scorsa primavera. Non stiamo parlando di un buco gigante, ma di una sorta di canaletto di neanche dieci centimetri di diametro scavato nel parquet e nel cemento sottostante. Chi aveva abitato la casa prima di me l’aveva pensata proprio bene. O magari era stata un’idea già del progettista? O dei muratori che avevano realizzato l’edificio? Non era presente in nessun’altra stanza, e tantomeno si intravedevano buchi, fori o feritoie nei soffitti. Un piccolo sistema di specchi, come in un periscopio, rendeva possibile tenere sotto osservazione buona parte della stanza al piano inferiore. La ragazza si era appena trasferita lì. Diventò subito una droga, soprattutto nella fase iniziale. Ormai ho preso i suoi ritmi, e so quando posso permettermi di abbandonare la mia postazione. Non come quella prima settimana in cui mi barricai in camera, cercando di limitare al minimo anche le tappe in bagno. Per fortuna ha degli orari regolari, come capì presto. Magari chi mi aveva preceduto non era stato così fortunato, e traslocò dopo aver sistemato l’armadio sul buco in un barlume di rinsavimento.

Dalla porta di casa mia alla sua ci metto sei secondi, mi sono cronometrato, otto al ritorno, ma solo perché le scale in salita sono un po’ più faticose. Lascio la porta socchiusa, mi fiondo giù per le scale cercando di fare meno casino possibile, suono il campanello, e poi faccio le due rampe che mi separano dal mio appartamento a tre gradini alla volta, aggrappandomi con tutta la forza delle braccia al corrimano. Mi chiudo la porta alle spalle facendo molta attenzione a non sbatterla, e mi precipito al buco. Quando sono bravo riesco a beccarla che sta ancora riemergendo dalla dimensione intima in cui è avvolta, come se il trillo del campanello ci mettesse una vita a penetrare la bolla che si è costruita attorno. A quel punto si spaventa, colta di sorpresa si guarda rapidamente intorno, recupera le mutandine da terra, se le infila, prende la vestaglia appesa dietro la porta, indossa anche quella, e corre scalza all’ingresso, ma è sempre troppo tardi.

È un gioco che mi concedo ogni tanto, ma non troppo spesso, che ho paura che inizi a sospettare qualcosa. Magari un giorno invece di scappare via aspetto che venga ad aprire e mi faccio invitare in casa per un caffè.

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