domenica 29 giugno 2014

La passeggiata dei fantasmi

Ho comprato un paio di occhiali nuovi. Ora ci vedo meglio. Quelli vecchi erano consumati e graffiati, mi sembrava di essere immerso in una perenne nebbiolina. È strano abbandonare un vecchio paio di occhiali, per quanto con le lenti graffiate e le asticelle corrose dal sudore. Ogni occhiale ha la sua storia. È molto raro che gli occhiali te li vai a comprare da solo, c’è sempre bisogno di un consulto per un acquisto così delicato, che ti segnerà la faccia per almeno un paio d’anni. In questo caso ne sono passati ben cinque, ma stavolta ho osato (per quanto si possa osare passando da una montatura nera a marrone scuro o viceversa, da una appena un po’ più squadrata a una appena un po’ più tondeggiante), e non mi sono fatto accompagnare da nessuno. Che ne è stato del precedente accompagnatore? È una storia, anzi un’altra storia. Non ne parlerò qua, anzi ora, che tanto lo so che salterà fuori comunque.

Fatto sta che ora ci vedo meglio. Molto meglio. Ho visto delle cose che non credevo avrei mai rivisto. È una notte senza padrone. Senza padrone e senza obiettivi. Di quelle in cui esci di casa e ti metti a camminare, perché non c’è altro da fare o forse è tutto lì quello che vuoi fare. E così faccio. Una versione più lunga e sostenuta della passeggiata digestiva post-pasto di chi ha una certa età. Il percorso, per quanto non obbligato, è quello che interseca tutti i punti di aggregazione giovanile presenti sulla mappa della città. Una specie di ciclica ricognizione selettiva ma casuale su non so neanche bene cosa. Belle ragazze? Abbigliamenti e mode? Espressioni, gesti e contatti umani? La speranza di incontri inaspettati sebbene desiderati? Serendipità varie ed eventuali? Sono ormai giunto al parchino, quello in cui tutta la gioventù sembra convenire il venerdì sera, quando appari tu, anzi appariamo noi. Tu ne stai in piedi, in mezzo alla gente, sorridente. Indossi un vestito lungo a righe, senza spalle, e i Dr. Martens neri d’ordinanza, hai i capelli ricci e corvini raccolti in una coda alta. Parli con un’amica, in una mano tieni un bicchiere di birra, nell’altra hai una sigaretta accesa. Io ti raggiungo alle spalle, sgusciando nella folla, ti passo le dita sul collo senza dire niente, e resto in attesa. Ti giri con gli occhi sgranati e furiosi, pronta a insultare il malcapitato di turno, poi mi riconosci e mi insulti comunque, prima di punirmi con un morso sul mento, che ti costringe ad alzarti leggermente in punta di piedi e appoggiarti a me. La tua amica sembra un po’ sconcertata, forse non le hai ancora detto nulla, ma in effetti che bisogno c’è, in fondo questa è la terza e ultima volta che ci vediamo. Poi spariamo, inghiottiti dalla gente, probabilmente diretti al bar sotto il gazebo. Ci lascio lì, tanto so come va a finire, cioè che va a finire nel giro di un paio di birre e di una nottata che avremmo dovuto evitare, e riprendo la mia camminata, diretto verso la via dei baretti, quella frequentata da studenti ampiamente fuoricorso e indigeni doc. Sulla strada mi fermo a leggere un’insegna lontana, e non mi accorgo del tuo arrivo, tanto che mi vieni a sbattere contro, anzi mi passi attraverso. Hai i capelli biondi corti raccolti sulle tempie da una paio di forcine, le tue classiche ballerine rosse e un vestito nero che sbuffa a ogni passo, e io ancora mi chiedo perché quel giorno non mi sono fermato a parlare dopo che ci siamo salutati, che a pensarci avevi proprio l’espressione di chi avrebbe voluto parlare, con quegli occhi verdi sgranati come li sgrani solo tu quando ti metti in ascolto, mentre io sono scappato per arrivare in tempo a un appuntamento inutile, col senno di poi.

Il luogo dell’appuntamento era l’ultimo bar della via, quello con le ampie vetrate, ed è anche il luogo che ora fronteggio. L’appuntamento forse non era stato poi così inutile, visto che lì, in mezzo ai tuoi amici, ti ho visto per la prima volta con gli occhi di un estraneo. Ora però non è quella volta. Ora siamo appena usciti dal locale dopo la presentazione di un romanzo a fumetti e chiacchieriamo, chiacchieriamo e io vorrei baciarti ma non posso, non posso in mezzo a tutta la gente, maledetta gente che vede che sente che parla, e allora ti metto una mano tra i capelli, in quella massa di capelli rossi che mi piace tanto, e ti aggiusto la frangia arruffata, o almeno ci provo, che tanto poi sembra arruffata uguale. E tu mi dici che no, che non avrei dovuto farlo, che è rischioso, ed è assurdo che una cosa così piccola sia comunque troppo grande per noi, se un noi c’è mai stato.

La via brulica di gente, che affolla i locali e si riversa in strada, io faccio lo slalom per poter proseguire alla mia velocità di crociera ed evitare che spuntiate tutti insieme in questo luogo che assomiglia sempre di più a un cimitero degli elefanti, però sono costretto a fermarmi davanti a una finestra illuminata, al primo piano di un condominio che ospita anche una stazione dei carabinieri. La tua silhouette passa rapida, avanti e indietro, io ti guardo seduto al tavolo della cucina, sto quasi per mettermi a piangere, sento gli occhi lucidi, mi sforzo di trattenermi, ma è una ferita ancora fresca, troppo fresca e troppo profonda, anche se tu non c’entri nulla, è che non avrei dovuto essere qui adesso, ma questo non te lo dico, mica posso dirti che sto provando a mettere una pezza su un buco quando in realtà dovrei gettare via la maglietta. Nel frattempo al piano di sotto, poche decine di metri più avanti, tu, tu e i tuoi nei e le tue fossette e il tuo taglio alla maschietta, mi state imboccando un’ostrica direttamente dal guscio, perché è così che vanno gustate, io non lo sapevo perché quella è la mia prima ostrica, ha un sapore un po’ strano, delicato ma forte, un po’ acido, e poi ridiamo e scherziamo e decidiamo a tavolino, al tavolino, i nostri soprannomi segreti che ci identificheranno sempre, anche dopo. Mi ripeto mentalmente il mio, lo ripeto fin sulle labbra, finché non suona come delle lettere vuote, ma forse la ripetizione non c’entra. C’è una piccola aiuola all’incrocio, strappo un fiore bianco da un oleandro un po’ patito, il fiore però no, non lo è, lo conservo tra le dita raccolte a coppetta, tu mi stai aspettando in piazza, all’angolo con la grande biblioteca, hai delle grandi cuffie bianche, non ho mai ben capito che musica ti piaccia, sei assorta e non mi vedi arrivare, così posso sorridere guardando i leggings colorati, che quasi rubano la scena ai capelli platinati, agli occhi azzurri e alle guance sempre rosee. Come fai a indossare i leggings anche d’estate io tuttora non me lo spiego, ma tu ti sei sempre rifiutata di mostrare le tue belle gambe nude, e ora che ci penso neppure io ho mai avuto l’onore. Vorrei lasciarti in dono il fiore, ma poi decido di non farlo, che già l’altra volta l’hai preso, mi hai ringraziato, ma non ci hai visto quello che ci vedevo io. Allora lo infilo nel taschino della polo, la mia medaglia al valore, e allungo un po’ il percorso, giusto per fermarmi sotto a quel portone, leggere il campanello, suonarlo, e aspettare che tu scenda, mi dici che ti eri addormentata sul divano in mia attesa, lo riconosco dall’occhio meno vispo e aguzzo del solito e dalla canottiera stropicciata che mette in mostra le tue spalle tatuate che mi eccitano proprio, che non pensavi che sarei passato, ma una promessa è una promessa, anche se non so più se ho fatto bene a farla quella promessa, che non ho mai le idee chiare a sufficienza per fare promesse né a te e neppure a me stesso, s’è per questo.

Mi lascio lì, indeciso sul da dirti e da farsi mentre tu sfoggi la tua migliore espressione interrogativa, un po’ triste e un po’ desiderosa, ma era una deviazione di cui avevo bisogno per prepararmi a quelle parole, quell’addio che echeggia ancora adesso tra un lampione che irradia luce gialla e il chiosco dell’edicola con sopra disegnati Charlie Brown e Snoopy, uno spazio riunito dalle strisce pedonali che attraversano questa via un po’ più larga che per qualche motivo che mi sfugge viene chiamata piazza. Ed è proprio lì, in mezzo alle strisce pedonali, incuranti delle macchine che sopraggiungono, che mi saluti per l’ultima volta, di nuovo tu, mi saluti, ti giri e ti allontani verso casa, mentre io ho i piedi incollati sul bianco delle strisce, chi ha fatto questo brutto scherzo di sostituire le strisce col biadesivo, e solo all’ennesimo colpo di clacson trovo le forze per completare la traversata e conquistare il marciapiede. Nel frattempo a un centinaio di metri e di giorni ti scopro a baciare un altro, doveva succedere, mi ero preparato ma non si è mai preparati, è una sensazione difficile da spiegare, come di soffocamento, di boccheggiamento, che forse dipende anche da quel chiostro scuro che ogni estate viene adibito alle rassegne musicali, dove suonano sempre le stesse canzoni, come in un girone infernale dantesco. E pensare che ad altrettanti pochi metri ti soccorro quando, dopo che abbiamo riso e scherzato col cameriere del pub, un cameriere allegro e ciarliero nonostante la difficoltà di gestire un esercizio pubblico in quella via che giunge all’onore delle cronache sempre e soltanto quando si parla di degrado cittadino, dopo che abbiamo pagato il conto e siamo usciti dal dehors, hai un mancamento, forse un calo di zuccheri, e ti adagio sul gradino di un portone, e ti porto un bicchiere d’acqua, e penso che vorrei proteggerti per sempre, fare scudo alle tue debolezze.

Da gradino a gradino, da portone a portone, quello dove ci sediamo a bere le birre comprate dal pakistano a fianco, e io mi sento studente fuorisede al primo anno, e mi sento sempre studente fuorisede al primo anno, anche adesso, e discutiamo di un sacco di cose su cui non andiamo d’accordo, ma inspiegabilmente continuiamo a uscire insieme e non sappiamo cosa siamo, se amici o qualcosa di più, so che però mi sono subito rimasti impressi i tuoi lunghi capelli castani, dalla prima volta che siamo andati a bere insieme ad altri compagni di corso dopo le lezioni all’università, e chi ci aveva mai pensato prima di adesso a questa fissa per i capelli, fatto sta che i capelli te li guardo anche adesso e ho voglia di afferrarli e tirarti verso di me, ma non lo faccio perché non so cosa siamo fuori dalle nostre stanze. Chissà poi perché scegliamo sempre il gradino, quando poco più in là c’è lo storico rifugio, aperto anche quando tutta la città va in vacanza, in cui trovano accoglienza le anime perse negli agosti desolati. Forse perché lì mi attende un altro bacio, subìto a tradimento, mai tradimento fu più desiderato, mentre cercavo di riempire l’imbarazzo di parole, come faccio sempre. Un bacio carico di aspettative disperse con il precoce arrivo dell’autunno, e mi sto ancora chiedendo perché, perché sia dovuto arrivare così presto quell’autunno.

Ormai sono sulla strada di casa, e come sempre devo passare attraverso la stazione e con me ci sei tu, tutte le volte che ti ho accompagnato a prendere il treno, quando lavoravi qua ma abitavi altrove, mentre adesso le città d’arrivo e di partenza sono altre, e ti ho desiderato per così tanto tempo che quando poi alla fine è successo qualcosa si è rotto, o qualcosa mancava, o forse avremmo solo dovuto mantenere tutta la magia in sospeso, perché la magia era lo stare in sospeso. E adesso ti saluto un’ultima volta, tu ti dirigi al binario e io imbocco il sottopasso che mi conduce fino in camera mia, e qui sono solo, qui non entrate mai, qui dove i muri sono bianchi e non ci sono appigli, qui dove mi sento sempre troppo di passaggio per appendere quadri, fotografie o manifesti, non sapete o non volete restare.

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